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Lettera dal carcere: noi con pene (in)certe siamo gli invisibili dello stato
Articolo pubblicato su: Wall:Out Magazine
Gli italiani sanno pochissimo di come funzionano le nostre carceri, se non per sentito dire, e questo è un problema serio. Possiamo davvero definirci uno stato evoluto e democratico? Osservare l’interno delle nostre carceri potrebbe essere un punto d’inizio.
A volte, per esaminare il grado di civiltà di una nazione, è sufficiente osservare le condizioni delle sue prigioni; esse rispecchiano il livello di sensibilità e unità sociale.
Il carcere è un mondo totalizzante e raccontarlo è complicato, specialmente in una società che ne vuole sapere il meno possibile. Perché parlare di carcere e criminalità vuol dire parlare di figure emarginate.
PARTIAMO DAGLI SPAZI
È diventato ormai tangibile il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il trattamento dei detenuti è considerato inumano e degradante quando ciascun detenuto ha a disposizione uno spazio inferiore ai 3 metri quadri. La capienza di ogni cella è calcolata su 9 metri quadri per un singolo e 5 metri quadri per ogni persona aggiunta: nella pratica, ciò si traduce in 14 metri quadri per detenere due persone.
Nel 2022, l’Italia ha conquistato il secondo posto in Europa per sovraffollamento carcerario, immediatamente dopo Cipro. Il tasso di sovraffollamento è stato pari al 115%, con 57 mila detenuti spalmati su 190 carceri, mentre i posti effettivi erano 47 mila. Ciò ha procurato al nostro paese condanne e sanzioni da parte della Corte europea.
“Il problema del sovraffollamento è una denuncia ormai diventata parte del quotidiano italiano” spiega il generale Sapore Donato Capece, segretario generale del SAPPe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria).
E CHE COSA SUCCEDE IN LIGURIA?
A marzo 2022 le statistiche contano 1319 detenuti a fronte di 1109 posti. Dal 2012, il Provveditorato regionale ligure dell’Amministrazione Penitenziaria è accorpato a quello di Torino e Valle d’Aosta.
Sempre nel 2012, viene siglato per la prima volta un accordo con il Ministero della Giustizia per trattare l’inclusione sociale delle persone sottoposte a provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Nel 2016 segue un altro accordo con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per Piemonte e Valle d’Aosta in cui si include anche la sezione delle carceri minorili. Esso è stato poi riconfermato nel 2019, ed è valido tuttora.
Nello specifico, sono stati concordati interventi di formazione professionale e assistenza all’inserimento lavorativo rivolti a soggetti in esecuzione penale e alle loro famiglie; inoltre sono stati sviluppati servizi per il sostegno alle vittime di reato e misure di giustizia riparativa.
E LO STATO QUANTO INVESTE?
A giudicare dalle carenze di personale, sembrerebbe (troppo) poco.
Secondo i dati SPACE (Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe), la media europea di agenti penitenziari è di uno ogni 2,6 detenuti; in Italia la stima è di circa un agente ogni due. Il totale del personale di polizia penitenziaria previsto in tutte le carceri è di 41.335 unità, mentre la somma del personale effettivamente impiegato presso le carceri è di 33.160 (dati aggiornati al 31 ottobre 2016).
Oltre a questa carenza intrinseca, si stima che tra il 2022 e il 2026 andranno in pensione oltre 7.403 lavoratori, ai quali si aggiungeranno presumibilmente 5.000 persone che cesseranno il servizio per altre cause. Dunque, per colmare un buco di circa 12.000 persone, occorrerà assumere una media di 2.400 agenti all’anno. Oggi però il dipartimento non sembra essere, suo malgrado, in condizioni di esprimere questo potenziale assunzionale.
Altre due figure essenziali all’interno degli istituti carcerari sono quelle degli educatori e dei volontari. Con un organico previsto di 896 dipendenti, nel 2021 si contava un educatore su 83 detenuti, mentre i volontari sono sempre troppo pochi per sopperire alla mancanza dell’organico interno.
Il personale competente scarseggia e la conseguenza è una gestione più rigida e restrittiva, limitando per esempio le aperture delle celle a poco tempo al giorno.
L’avere celle chiuse per la maggior parte della giornata riduce le possibili attività riabilitative e la frequentazione degli spazi comuni. Minimizzare il tempo e ridurre gli spazi significa anche limitare il recupero del singolo individuo, con conseguenze psicologiche da non sottovalutare. È necessario inoltre procedere all’educazione-rieducazione dei detenuti, affinché possano reinserirsi nella società, soprattutto attraverso il lavoro.
Un recente studio dell’università Bocconi ha stimato che ogni detenuto costa alla comunità italiana 154 euro al giorno, di cui solo 35 centesimi sono investiti per la rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. Una percentuale minima.
Non rieducare significa alimentare la recidiva, che in Italia è del 68%; il dato scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo. Ancora una volta le statistiche confermano che siamo ben lontani dagli obiettivi imposti dall’Unione Europea.
MA CHE COS'E' LA PENA?
Per pena, riconosciamo una privazione o limitazione della libertà personale in conseguenza agli atti commessi. E questa limitazione non deve incidere e ledere sul detenuto né sul piano fisico né su quello mentale, garantendo il rispetto della dignità personale
In Italia, il concetto di dignità è molto spesso travisato. L’introduzione del reato di tortura è avvenuta solo nel 2017 con l’articolo 316 bis del Codice penale, con oltre 30 anni di ritardo dalla rettifica della Convenzione Onu del 1987.
Nella nostra normativa, si definisce tortura un qualunque trauma psichico verificabile. Molto spesso però, non tutti gli eventi negativi sono traumatici, come non tutti gli eventi traumatici generano sintomi post-traumatici e sofferenza psicologica intensa. Rimane molto difficile quindi dimostrare come un trauma possa risultare un atto di tortura.
Il tema della tortura è ancora un grosso buco nero. I procedimenti aperti e le prime sentenze di condanna sono relativamente pochi rispetto alle denunce fatte da detenuti, familiari e associazioni. I casi si riferiscono per lo più a violenze fisiche.
La prima condanna per tortura è avvenuta nel 2021.
Un agente penitenziario del carcere di Ferrara viene accusato di violenze fisiche. Nel mese successivo, dieci agenti vengono condannati per tortura e abusi nel carcere di San Giminiano.
Tra le pratiche di tortura più comuni vi sono pestaggi seriali, insulti a sfondo sessuale. Ne seguono periodi di isolamento per nascondere i segni delle violenze, o addirittura perizie mediche falsificate.
Ma c’è anche chi si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. L’Associazione Antigone, attiva dal 1991, è diventata il riferimento nazionale per il comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene.
Essa promuove dibattiti sul modello di legalità penale e processuale, facendo sensibilizzazione sociale e raccogliendo e divulgando informazioni sulla realtà carceraria italiana.
“C’è un grave problema di abusi di potere e violenze nelle carceri italiane per il quale è necessario creare una cultura di formazione e informazione”.
MONDO POLITICO
Nonostante le denunce esplicite, nel mondo politico vi è una negligenza di base. La presidente del Consiglio dei Ministri stessa, Giorgia Meloni, ha definito quella sulla tortura una legge “che impedisce alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro”.
Gli agenti di polizia penitenziaria devono sì poter svolgere il loro lavoro, ma nella tutela dei diritti dell’uomo. Il rapporto di fiducia tra cittadini e custodi della legalità non può e non deve essere intaccato da chi commette abusi di potere. Fare di tutta l’erba un fascio è controproducente, ma non denunciare una problematica tanto persistente è impossibile. Forse andrebbe fatta una rieducazione sociale alla non violenza.
Le torture fisiche e mentali da parte delle figure di riferimento all’interno delle prigioni portano ad avere detenuti in condizioni psicologiche precarie, che spesso danno origine a fenomeni di violenza o autolesionismo.
Nel 2022 si è registrato il tasso più alto di suicidi degli ultimi dieci anni. Dal 2012 si sono tolte la vita 583 persone, un suicidio consumato su 20 tentati; rimane incalcolabile il suicidio sventato, che è considerato un evento ordinario all’interno delle celle.
Questi dati preoccupano l’amministrazione penitenziaria, che da anni monitora con attenzione la situazione. La maggior parte dei suicidi viene compiuta da persone con fragilità personali e sociali.
Insomma situazioni delicate, che non andrebbero sottovalutate. Come?
Per iniziare, smettendo di ignorare le richieste di aiuto e le dichiarazioni di malessere da parte dei detenuti, interpretati spesso come forme di capriccio.
Suddividendo in maniera equilibrata la popolazione carceraria nelle celle, in metrature consone e in condizioni igienico sanitarie adatte. Ascoltando i bisogni e le necessità dei singoli.
Assicurando le visite da parte dei familiari, evitando di trasferire i detenuti in luoghi remoti. Assicurando la funzione rieducativa della detenzione, anziché quella punitiva.
Alimentando la fiducia in un futuro diverso fuori dalle sbarre. Solo così potremo correggere una chiara rappresentazione di un fallimento delle istituzioni.
Puoi leggere questo e altri miei articoli su Wall:Out Magazine | Giada Malagoli Minutiello